Onorevoli Colleghi! - Il 12 maggio del 1977 a Roma, mentre era in corso la campagna per la raccolta delle firme per i referendum promossi, ai sensi dell'articolo 75 della Costituzione, dal partito radicale, verso le ore 20 fu uccisa, all'imbocco del ponte Garibaldi, Giorgiana Masi e furono feriti Elena Ascione e il carabiniere Francesco Ruggiero. Giorgiana cadde, colpita alla schiena, da un proiettile calibro 22 che le trapassò la vertebra, mentre fuggiva ad una carica della polizia.
      Volgeva la schiena al ponte, alle Forze di polizia che avanzavano. Nel corso della stessa giornata, fin dalle ore 13, altre decine di cittadini, tra cui alcuni parlamentari, furono malmenati, colpiti e feriti dalla polizia che non denunciò invece alcun ferito fra gli agenti.
      I 1.500 uomini della Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di finanza, della squadra mobile, avevano ricevuto l'ordine non solo d'impedire lo svolgimento della «festa» a piazza Navona e della raccolta delle sottoscrizioni ai referendum radicali, ma di coinvolgere tutto il centro storico di Roma, con un impressionante e sproporzionato impiego di forze, nella caccia di chiunque, «manifestante» o passante che circolasse a piedi, potesse essere sospettato di avere intenzione di recarsi a piazza Navona.
      In quelle circostanze la polizia fece largo uso delle armi da fuoco, degli artifici lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo, degli altri mezzi di coercizione, degli agenti in borghese travestiti da «autonomi» con bavagli, armi improprie e pistole non d'ordinanza.
      L'imprevisto comportamento sostanzialmente passivo dei «manifestanti» e dei passanti, il copioso materiale fotografico e cinematografico realizzato dai giornalisti che erano stati convocati per ben altra rappresentazione, ha consentito all'opinione pubblica, o almeno ad una parte di

 

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essa, di partecipare indirettamente a quello che, secondo i programmi dei registi, doveva essere un bagno di sangue, una ritorsione per l'assassinio dell'allievo Passamonti e una vittoria della maggioranza d'ordine contro gli oppositori «sanguinari» e «violenti».
      Il risultato di questa «brillante» operazione di guerra fu la privazione della vita ad una giovane, inerme, ragazza di 18 anni; la rabbia e la disperazione imposta anche a chi non voleva accettare la logica della vendetta; la riduzione dello spazio politico esclusivamente al confronto fra forze di regime e partito armato. Poi l'indecoroso comportamento di un Ministro della Repubblica costretto, davanti alle prove fornite quotidianamente dalla stampa, a smentire giorno dopo giorno le notizie che era costretto a riferire persino al Parlamento: i «manifestanti» avevano aggredito la polizia; non c'erano agenti in borghese infiltrati tra i manifestanti; non erano armati; non avevano le P.38; non avevano sparato (...).
      A tre anni da quella data la magistratura, che aveva avviato due inchieste su quegli avvenimenti, una relativa all'assassinio di Giorgiana Masi e al ferimento di Elena Ascione e Francesco Ruggiero, l'altra sul comportamento delle Forze dell'ordine nelle fasi precedenti a questi fatti, rinunciò ad individuare qualsiasi responsabilità, dopo avere omesso in quegli anni di avviare qualsiasi indagine significativa sui fatti denunciati. Nonostante il copioso materiale messo a disposizione dalla parte civile (cinquantacinque testimonianze, centinaia di fotografie, due filmati, perizie balistiche), dagli atti istruttori depositati emerge un fatto inquietante: i magistrati inquirenti si limitarono praticamente a formalizzare alcune di tali prove, a raccogliere dichiarazioni, nella maggioranza rese per iscritto, da parte dei funzionari e degli ufficiali che avevano diretto le operazioni del 12 maggio 1977, senza neppure interrogare il questore di Roma e gli estensori di questi mattinali così burocraticamente simili.
      I massimi livelli d'indifferenza, se non di spudoratezza, furono raggiunti nella mancata identificazione degli agenti ripresi nei filmati e nelle fotografie mentre facevano uso delle armi, nella mancata individuazione dei responsabili delle false dichiarazioni rese alla stampa, in Parlamento e alla magistratura circa l'uso delle armi, nel rifiuto di procedere alle perizie richieste per determinare con precisione l'arma, il proiettile, la distanza dalla quale era stato sparato, la dinamica dell'assassinio. Ma nonostante la gravità dei fatti appena accennati, che hanno trovato ampia documentazione sui giornali e su «libri bianchi», il ricorso allo strumento parlamentare dell'inchiesta apparirebbe solo parzialmente giustificato se non concorressero altri motivi che configurano invece, pienamente, il «pubblico interesse», richiesto dall'articolo 82 della Costituzione, nell'accertamento autonomo da parte del Parlamento delle gravi responsabilità del Governo, dell'amministrazione, della magistratura non solo in relazione ai comportamenti messi in atto nel corso della strage del 12 maggio 1977, ma anche agli eventi che hanno preceduto, giustificato e seguito quella tragica giornata. E non ci si riferisce solamente a quei comportamenti che evidenziano emblematicamente l'uso distorto e illegittimo della polizia e delle armi da fuoco: l'effetto criminogeno delle norme fasciste del testo unico di pubblica sicurezza a cui si appellò il prefetto di Roma o quello della legge «Reale», la «resistenza» della magistratura nelle indagini che coinvolgono la responsabilità delle Forze di polizia e del Governo.
      Il questore di Roma è stato rimosso ma, evidentemente, i promotori di questo disegno cinico quanto criminale devono essere ricercati non solo nella questura di Roma, ma ben più in alto, nei centri di potere e di direzione dello Stato.
      Inoltre, le dichiarazioni fatte dall'ex Capo di stato ed allora Ministro dell'interno, Francesco Cossiga, durante un'intervista in una famosa trasmissione televisiva («Report») andata in onda il 27 aprile 2003 hanno riaperto questa pagina
 

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fondamentale della storia degli anni '70. Egli ha affermato di sapere cose sulle stragi evitate, sulle responsabilità dell'assassinio di Giorgiana Masi e sulla gestione democratica dell'ordine pubblico in Italia. Ha anche aggiunto che in merito alla morte della giovane egli ha «un segreto che non confesserebbe neppure se chiamato dalla magistratura».
      L'inchiesta parlamentare su questi fatti presenterebbe, inoltre, non solo i caratteri di una «inchiesta politica» ma anche quelli di una «inchiesta legislativa» che possa accertare e definire i presupposti di una legislazione futura, anche abrogativa, atta ad impedire quei comportamenti anticostituzionali, quelle omissioni che, sotto le più diverse specie, sono stati rappresentati in quella vicenda.
      È evidente, del resto, che le responsabilità che possono configurarsi potrebbero raggiungere livelli ai quali dovrebbe fermarsi l'iniziativa della magistratura non solo e tanto per le funzioni dei possibili «imputati» ma per il carattere politico delle responsabilità.
      Di qui l'iniziativa di una inchiesta che affronti gli eventi del 12 maggio 1977, quelli che li hanno preceduti e seguiti, sotto ogni aspetto e che rappresenti anche, per gli altri poteri dello Stato, uno stimolo a comportamenti adeguati. È forse il caso di aggiungere che la Camera dei deputati ha già avuto modo, in varie occasioni nella VII legislatura, di affrontare questi problemi e di rendersi conto dell'ampiezza delle responsabilità politiche che sono coinvolte dai fatti del 12 maggio 1977.
      La Commissione parlamentare di inchiesta dovrebbe quindi affrontare principalmente i seguenti problemi relativi ai fatti del 12 maggio 1977: 1) la legittimità del provvedimento del prefetto di Roma con il quale si sono vietate, per un periodo di circa due mesi, tutte le manifestazioni nella Capitale; la compatibilità delle norme di pubblica sicurezza con il dettato dell'articolo 17 della Costituzione; le responsabilità politiche in relazione a tale divieto; 2) individuazione delle ragioni che determinarono la decisione di mantenere il divieto per la manifestazione di piazza Navona, in considerazione della finalità che aveva in attuazione di un istituto costituzionale, anche quando gli organizzatori avevano annunciato di rinunciare ai comizi e di volersi limitare a svolgere una «festa» musicale e a raccogliere le sottoscrizioni referendarie; le ragioni della mancata presa in considerazione della richiesta da parte dei segretari nazionali delle tre confederazioni sindacali e del presidente del gruppo socialista alla Camera dei deputati di autorizzare almeno la «festa» e comunque di essere ricevuti per scongiurare la tragedia che si annunciava; 3) individuazione delle eventuali pressioni politiche realizzate al fine di danneggiare il partito radicale e l'iniziativa referendaria che in quei giorni si avvicinava al traguardo delle 500 mila firme, attraverso un piano di provocazione politica e poliziesca; 4) accertamento delle responsabilità di chi, sin dalle ore 13, aveva diffuso tra le forze dell'ordine la notizia del ferimento di alcuni poliziotti da parte dei «manifestanti»; di chi aveva dato l'ordine della prima carica contro pacifici passanti a piazza San Pantaleo; di chi aveva dato l'ordine, attraverso la radio in dotazione della polizia, di fare uso delle armi, come risulta dalla registrazione dei colloqui intercorsi tra la questura e i responsabili di settore; 5) accertamento delle responsabilità di chi aveva disposto l'uso di agenti «travestiti» da «autonomi», che imbavagliati, con mazze di ferro, con pistole non di ordinanza hanno creato tra i poliziotti e i cittadini un clima di terrore e panico provocando reazioni sproporzionate da parte delle Forze di polizia e l'uso generalizzato delle armi contro gruppi di persone inermi; 6) valutazione, anche alla luce delle disposizioni generali di polizia, dell'intero comportamento e dei movimenti dei reparti di polizia nel corso dell'intera giornata; 7) valutazione dell'attendibilità delle verifiche fatte sulle armi di ordinanza, anche alla luce delle prove presentate dalla parte civile e che smentiscono le dichiarazioni di Ministri e questori circa il mancato uso delle armi da fuoco nel corso della giornata; 8) individuazione
 

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dei responsabili delle dichiarazioni rese dal Ministro dell'interno, nei giorni successivi al 12 maggio, sia sulla stampa sia in Parlamento, che non corrispondevano a verità in seguito emerse e che solo parzialmente furono rettificate; 9) individuazione delle eventuali responsabilità della magistratura non solo in ordine alla mancata ricerca dei responsabili della morte di Giorgiana Masi ma anche per l'omessa individuazione e incriminazione dei responsabili delle numerose azioni delittuose che furono realizzate nel corso dell'intera giornata da parte delle Forze dell'ordine; 10) censimento delle armi non di ordinanza possedute singolarmente da appartenenti alle Forze dell'ordine o alle scuole di polizia e dei carabinieri; 11) accertamento della esistenza o meno di altri documenti e dati, in possesso dell'Esecutivo, che non fossero stati rimessi alla magistratura, in ordine allo schieramento delle Forze di polizia, agli ordini di servizio, ai rapporti dei reparti operanti, nonché ai dati forniti al Ministro dell'interno ai fini delle sue dichiarazioni in Parlamento. Con la presente proposta di legge, adempiendo all'impegno preso non solo nei confronti della famiglia di Giorgiana Masi ma di tutti i sinceri democratici, si intende fornire a tutti i parlamentari di ogni gruppo politico una occasione per l'accertamento della verità su di una vicenda che ha gravemente inquinato la vita politica italiana e provocato conseguenze laceranti nel tessuto sociale del Paese, nella convinzione che solo su questi presupposti di certezza e di chiarezza gli istituti costituzionali della Repubblica possano affrontare positivamente gli attacchi e i tentativi di screditamento che sono messi in atto con allarmante violenza e determinazione da forze interne ed esterne dello Stato.
 

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